Mia madre, il sugo “finto” e il sugo “vero”

Sono diventata una cuoca dopo la sua morte.
Sembrava reciso il legame tra noi due e questo ha fatto sì che, stranamente, in qualche misterioso modo, io sia diventata lei. E non solo per l’ovvio motivo che ora la nonna sono io, ma perché le somiglio sempre più. Lo vedo, talvolta trasalendo, quando capito davanti ad uno specchio un po’ distrattamente e mi sembra di vedere lei, lo stesso suo sguardo; me lo dicono parenti e amici. Lo vedo anche dal fatto che mi vengono in mente, improvvisamente e spontaneamente – per una sorta di memoria involontaria – i suoi gesti, il suo modo di fare il pane, di tirare la sfoglia per far le tagliatelle, di fare il “polentone” sul paiolo di rame, china per più di mezzora sopra il fuoco, rossa e sudata.
Come molte ragazzine, ero allora poco attenta alle cose domestiche, alla cucina, alle ricette, alle procedure, ai gesti che oggi invece rivedo nitidamente in sequenza, che ricostruisco e ripeto con naturalezza, ma con impegno, come un rito di memoria e di identificazione.
E mi prende un rimpianto tenero per il suo modo naturale e semplice, talvolta quasi brusco, di essere generosa, di voler bene ai poveri, ai piccoli, a chi ha fame, a chi ha perduto il marito o il figlio in guerra, a chi non sa scrivere; sempre in movimento a portare, quando poteva, un filoncino di pane bianco e un goccio d’olio (“cenano con l’insalata scondita…”) ai vicini, pieni di figli e di miseria; sempre a cucinare patate, fagioli in umido o pasta con sugo “finto” ( il sugo “vero” era di carne) per quelli della Camera del lavoro o del Partito, che arrivavano da Macerata a fare il comizio o la riunione ed erano sempre affamati…

Maria Teresa

Ricetta del sugo “finto”

Nel nostro orto-giardino c’erano alcuni alberi da frutto e molti ortaggi, insieme a piante aromatiche e fiori; una palma altissima, diversi oleandri e hibiscus, un grande fico piantato da mia nonna negli anni ’20 del Novecento (non l’ho conosciuta, morirà nel 1934), e, soprattutto, tra casa e orto, una grande terrazza con due pergolati di uva fragola, che mio nonno in parte aveva innestato con Sangiovese o Montepulciano, non ricordo bene. Ne ricavava, da queste uve miste, una piccola botte di leggero vinello piuttosto aromatico, che serviva nelle sere fredde d’inverno, con l’aggiunta di zucchero, chiodi di garofano e un po’ di cannella, a fare il vin brulé.
È la fragola a restituirmi ancora l’odore e il sapore dolce dell’infanzia, quei chicchi opachi di colore violaceo, che spizzicavo tra ronzii di vespe e altri insetti, senza neppure aspettare che maturassero pienamente. Nel periodo più caldo dell’estate la luce verde, fresca e ombrosa delle viti fittamente intrecciate veniva incontro a chi saliva la scala che portava al piano superiore, dove orto e giardino erano collocati, perché la casa era costruita su terreno in declivio.
Nell’orto si coltivavano fave e piselli dolcissimi, insalate, zucchine, pomodori, aglio e cipolle, ma c’erano anche erbe odorose e grossi cespugli di rosmarino, salvia, timo, menta, basilico, nepitella, borragine che spiccava con i suoi fiori azzurro-viola.

La preparazione del cibo in tempi magri era un grande terreno di azione e fantasia per mia madre e per tutte le madri. È bello rievocare il “sugo finto”, che era un sugo di pomodoro e olio d’oliva, profumato con cipolla o aglio, basilico, maggiorana, peperoncino e sostituiva, secondo mia madre indegnamente, il sugo di carne.
Il segreto del sugo finto era la freschezza dei pomodori dell’orto, l’olio di oliva locale, le verdure, ossia cipolla, sedano, carota, aglio; ed infine gli “odori”, basilico e altre erbe profumate. A questo sugo, che non doveva bollire molto, si adattava benissimo il pecorino ben stagionato dei monti Sibillini (il parmigiano arriverà alla nostra tavola dopo la guerra, negli anni ’50).
Talvolta, soprattutto nel periodo del maiale, il sugo “finto” veniva arricchito con un pezzetto di pancetta tritata, o di guanciale, o di lardo. E cessava così di essere “finto”.

 

Ricetta del sugo “vero”

Ma la domenica non si badava a spese; venivo mandata il sabato in macelleria con cento lire e tornavo a casa con un cartoccio di ossi di manzo, cartilagini e poca carne a pezzi; più raramente, veniva ucciso un pollo e mamma stava ore a pulire le interiora e persino le budella, che, ben lavate e finemente tagliuzzate, finivano nella padella del ragù insieme a testa, ali e zampe. Se si aggiungeva a questi ingredienti un poco di carne bovina macinata e una salsiccia, ecco il ragù marchigiano dei giorni delle grandi ricorrenze, destinato alle tagliatelle tirate col matterello e anche alle lasagne marchigiane, che vengono ancora chiamate “vincisgrassi” o “princisgrassi”.
La principale differenza di questo ragù rispetto a quello bolognese consisteva in alcuni ingredienti come il lardo tagliuzzato, le rigaglie di pollo insieme a macinato bovino e in alcune spezie come chiodi di garofano, che si infilavano nella cipolla. Era dunque un ragù con molte carni, dal pollo al maiale al manzo.
Certo, gli animali, pur con parsimonia, venivano uccisi e mangiati, era una dura necessità. Ma era affettuoso il rapporto di mia madre con le galline, sembrava in qualche modo paritario: come fossero persone, le chiamava per nome, le rispettava, ci parlava, le accudiva con cura e le insultava solo quando mangiavano il prezioso uovo appena deposto; e soffriva nell’ucciderle.
Il maiale aveva il suo “stalletto” nell’angolo dell’orto più lontano dalla casa, tra un grande fico e dei sambuchi. In gennaio veniva ucciso, di mattina presto, ed io mi svegliavo alle sue urla acute e disperate. Provavo pena per lui, ma mi distraevo subito con tutto il tramestio che seguiva, il sangue che veniva bollito, spezzato in cubetti e in gran parte, secondo l’uso, distribuito ai vicini insieme ad alcune frattaglie, per essere poi fritto con olio e cipolla costituendo una gustosa e pesantissima cena.