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Coliva, il dolce “amaro”

Coliva (foto)

Bradet, un piccolo paese nel sud della Transilvania (Romania). Qui il tempo pare si sia fermato agli anni quando ero piccola. Al calar della sera si vedono ancora le mucche che, tornando dal pascolo, ognuna riconosce il proprio cancello ed entra nel proprio cortile, mentre sulle verdi colline i pastori radunano le pecore aiutati dai loro cani. Nel gelido inverno puoi incontrare per la strada le slitte trainate dai cavalli. Qui abitudini di vita e riti religiosi si tramandano da una generazione ad un’altra. I matrimoni si festeggiano per 2-3 giorni, ma lo stesso tempo si dedica anche alla persona defunta. La salma viene vegliata per 2 notti, con le candele sempre accese intorno alla barra. Esse sono la luce di Cristo, indicano la redenzione e il cammino della fede per ottenere la salvezza della propria anima. Il giorno del funerale, dopo la messa e la sepoltura, che per gli ortodossi deve essere nella terra, tutte le persone partecipanti al rito funebre sono invitate ad un pranzo composto da una minestra, un secondo ed un bicchiere di vino. Se il funerale si svolge di mercoledì o venerdì, oppure in quaresima, allora il pranzo deve essere vegano. Il tutto è seguito da un dolce chiamato Coliva che si prepara per questa triste occasione e per le messe di suffragio che si ripetono dopo 40 giorni, dopo 6 mesi, e dopo 1 anno dal decesso, poi una volta all’anno fino al settimo anno.
La Coliva è entrata a far parte della pratica religiosa nella seconda metà del 300 d.C. a Costantinopoli. Per prepararla si usa un grano chiamato “arpacas”. Il chicco di grano simbolizza il corpo umano, che una volta interrato risorge a nuova vita. È un’espressione materiale del nostro credere nella resurrezione, attraverso il cibo, che è l’essenza della vita, elemento primordiale della vita dell’uomo. Gli altri ingredienti di questo dolce rappresentano le virtù dei santi o del defunto e anche la dolcezza della vita eterna raggiunta. Si porta in chiesa durante la messa di commemorazione, dove il prete la benedice spruzzandola con del vino (sangue di Cristo) e, all’uscita dalla chiesa, viene offerta ai credenti. Fino a una dozzina di anni fa mi piaceva mangiare questo dolce poi, con la scomparsa di mia sorella, ho dovuto imparare a farlo seguendo la stessa ricetta usata da lei per prepararlo dopo la morte di nostra madre.

Violetta

Ricetta

Ingredienti: 1 kg di grano decorticato, 700 gr di zucchero, 500 gr di noci tostate, scorza grattugiata di 2 limoni e 2 arance biologiche, 4 bustine di vanillina, cacao amaro, rum, biscotti secchi grattugiati, poco sale.
La sera prima lavare il grano in 9 acque, metterlo in una pentola aggiungendo acqua fino a 2-3 ditta sopra il grano con poco sale, e farlo bollire. Quando è quasi pronto aggiungere un bicchiere di acqua fredda, lo zucchero, la vanillina, poi mescolare, spegnere il fuoco, e aggiungere una parte del rum. Al mattino seguente si mescola bene aggiungendo le noci tostate e tritate grossolanamente, dei biscotti grattugiati, dell’altro rum e le scorze grattugiate. Assaggiare e aggiustare secondo il proprio gusto. Sistemarlo su un vassoio, spolverarlo con dei biscotti grattugiati sopra e anche lateralmente, cospargerlo con dello zucchero a velo e ornarlo a piacimento. Con il cacao formare una croce nel centro.

Il brodo della domenica

brodo

Ricordo il brodo della domenica. Nei giorni festivi il profumo del brodo inondava la casa. Appena alzata mia madre “metteva su” il brodo. Il brodo è un liquido caldo, che con il suo aroma inebria chi vive la casa, li invita ad un assaggio mentre li intrattiene con questa piccola sensazione di rugiadoso che fa traspirare, sbuffando di tanto in tanto con nuvolette di vapore, dal coperchio del tegame. Sì perché il brodo si ricava con l’ausilio di una grossa pentola, più alta che larga, doverosamente munita di coperchio e il fuoco se dapprima deve essere forte e vigoroso, una volta raggiunta l’ebollizione, questa va mantenuta a fiamma lenta, affinché il contenuto non venga sballottato di qua e di là al suo interno.
Alla ebollizione si dovrà provvedere ad aggiungere un pugnetto di sale e per chi lo gradisce una crosta di parmigiano reggiano, ben lavata e “grattata” nella superficie con un coltello a lama liscia. I tempi sono personali, anzi personalissimi, ma suggerisco di non avere fretta, un buon brodo necessita di almeno quattro ore di ebollizione.
Gli ingredienti sono molto importanti, il manzo, qualche osso con cartilagine ed il cappone. Assolutamente bandite le verdure, gli odori, le foglie e le spezie. Il brodo della domenica è rigorosamente estratto dalla carne e per questo gli ingredienti vanno inseriti in acqua fredda ben lavati ed asciutti.
Al termine il brodo si presenta giallo paglierino e in superficie, dove la parte più grassa fa capolino, compaiono i classici “occhi” che lo contraddistinguono.
Una volta filtrato, ricordo che la mia mamma procedeva con l’assaggio, che consente di aggiustarlo di sale e di coglierne il sapore, che in ogni famiglia è unico ed irripetibile. È ottimo per essere accompagnato ai tipici tortellini emiliani, piuttosto che ai tradizionali capelli d’angelo, sorseggiando questa meravigliosa bevanda calda s’immerge nel tepore che questo alimento genera ad ogni cucchiaio, conferendo vigore ed energia.

Gian Carla (Commissione per le pari opportunità -C.P.O. del  Comitato unitario delle professioni intellettuali -C.U.P.)

Ricetta
Ingredienti: Carne di manzo, cappone, acqua, sale.
Inserire in un tegame gli ingredienti (carne di manzo e cappone) riempire di acqua fredda, portare a ebollizione, abbassare la fiamma, aggiungere il sale e far cuocere per circa quattro ore. Filtrare e servire.

La festa dei nati in marzo

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…. da sette anni lavoro qui a Modena e da sette anni nel mese di marzo si organizza una bellissima festa “mangereccia” per festeggiare i tanti nati in questo mese, me compresa!
Artefice dei tanti dolci, tutti fatti in casa, Anna Maria, amica, confidente, collega di lavoro e da pochi mesi un altro Angelo in cielo. Ho raccolto le sue ricette e i suoi consigli su come cucinare da “brava modenese” dopo 30 anni di sole ricette siciliane. E lo faccio solo adesso, perchè ho sempre chiesto le sue ricette mentre mangiavo da Lei o i cibi che mi portava, adesso mi toccherà leggere e sperimentare pensando ai consigli dati. La torta che non è mai mancata in questi anni è stata la torta di mandorle, da Lei chiamata la torta nera, sapeva che piaceva a molti!

Valentina (Commissione per le pari opportunità – C.P.O del Comitato unitario delle professioni intellettuali – C.U.P.)

Ricetta
Ingredienti: 300 gr. di mandorle da pelare, 300 gr. zucchero, una noce di burro, 50/60 gr. di cacao e cioccolato in polvere, un pizzico di sale, un pò di sassolino, 3 uova.
Pelare e tostare le mandorle, devono diventare scure, poi tritarle da fredde fino a farle diventare una pastina e aggiungere tutti gli ingredienti ed infine mettere il tutto sulla pasta (1/2 kg farina 00, 175 gr. zucchero, 3 uova, 100 gr. burro, 1 pizzico di sale e un pò di latte). Infornare a 170° per 40 minuti.

Le rose dell’amicizia

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Questa non è una ricetta legata alla mia infanzia… anzi è una ricetta presa da un giornale anni fa. Tutti conosceranno la torta di rose ma per me è diventata “le rose dell’amicizia”. Tutte le volte che ci si incontra tra amici, per dare il benvenuto ad uno nuovo oppure ancora quando io arrivo in un posto nuovo per me dove non conosco nessuno o solo poche persone… ebbene sì faccio questo dolce!!! Con burro e zucchero, con marmellata o con nutella… è sempre un successo! Aggrega tutti ed io lo chiamo: “le rose dell’amicizia”. E sono tanti i ricordi di serate magiche.

Imma

Ricetta
Ingredienti: Per l’impasto: 500 gr farina 00, 100 gr zucchero, 1 busta di vanillina, 1 pizzico di sale, scorza grattugiata di un limone, 2 uova, 3 cucchiai di olio, 150 ml latte tiepido (37-40°C), 1 cubetto di lievito x pizza (10 gr), Per farcire: 100 gr burro a temperatura ambiente,100 gr di zucchero (oppure si può farcire a piacere con nutella o marmellata ).
In una terrina mettere farina, zucchero, vanillina, sale, scorza di limone, uova, olio. Amalgamare il tutto aggiungendo un po’ per volta il latte tiepido in cui è stato sciolto il lievito. Lavorare l’impasto su spianatoia. In una terrina far lievitare x 1 ora e mezza. Per la farcitura lavorare il burro a crema, aggiungendo gradatamente lo zucchero. Con un matterello stendere l’impasto in una sfoglia rettangolare, spalmarvi la crema di burro (nutella o marmellata a scelta) e quindi arrotolare la sfoglia dal dal lato più lungo.Tagliare il rotolo in 12 pezzi uguali e sistemarli in uno stampo (Ø 26 cm) foderato con carta da forno. Porre a lievitare ancora per 1 ora. Infornate per 40 minuti a 180 °C nella parte media del forno (ovviamente fare la prova stuzzicadenti). ….e le rose dell’amicizia sono pronteee…..buon appetito!!

Seimani-trecuori 14 agosto 1971

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L’occhio fotografico del ricordo visualizza la prima immagine: Cielo violaceo, messaggero di un incombente temporale. Una colonna… un banale pilastro in pietra di un cancelletto stanco. Qualcosa di bianco sventola sul capitello come un ferito battito d’ali. Sappiamo bene tutte noi cosa sventolasse su quel capitello. Seconda immagine: un paio d’ occhi neri aggrappati al vetro di una pallida finestra. Non sono i soli però. A pochi metri di distanza palpitano altre ciglia ammutolite. Tre cuori molto giovani avevano deciso, per festeggiare il dodicesimo compleanno di una amica, di impastare con le loro mani una torta di cioccolata. Che eccitante lavorio quella mattina… e nel pomeriggio dello stesso giorno ci sarebbe stata finalmente la festa! Ed io corsi a casa senza respiro, perchè l’ora concessami era scaduta. Poi, qualcos’altro combinai perchè, un momento prima di raggiungere le amiche, giunse alle mie orecchie una negazione materna. Il “non vai” fece eco per tutte le stanze e rimbalzò per tutto il minuscolo quartiere. Terza immagine: esercito della salvezza. Anche quando arrivaste con la fetta di torta, la sentenza non cambiò. Il piatto rimase appoggiato sul capitello dell’esile pilastro. Alla fetta di torta non fu permesso di varcare la soglia e il bianco, protettivo tovagliolo di carta continuerà a battere nel vento il non tempo. E’ questa dunque l’ultima immagine di una delle mille nostre avventure? Il banale pilastro in realtà era una colonna votiva: la nostra amicizia ricevette il dono dell’eternità.

Morena

Ricetta

Ingredienti: 150 gr. di farina, 150 gr di cacao amaro, 150 gr. di zucchero (a questa dose io aggiungo altri 6-8 cucchiai di zucchero) mezzo bicchiere di caffè, due uova, una dose di lievito, latte q.b.

Nella Terrina unire farina, cacao amaro, zucchero (alla dose io aggiungo altri 6-8 cucchiai di zucchero) mezzo bicchiere di caffè, due uova, una dose di lievito cicogna, e lentamente qualche goccio di latte (ora utilizzo il latte di mandorla) affinchè l’impasto conquisti la giusta consistenza. Mescolare bene e utilizzare una tortiera del diametro di cm.22, Porre in forno già caldo a 180° per 25 minuti. Attendere che la torta si raffreddi e spolverizzarla con zucchero a velo.

 

Gli gnocchi

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Era da poco finita la seconda guerra mondiale che aveva affamato e causato tanto dolore alla popolazione. Non ricordo però che la fame abbia interessato la mia famiglia, nonostante fosse formata da mamma, papà e sette figli, quattro femmine e tre maschi. Non eravamo ricchi, abitavamo in provincia di Modena a San Giacomo R., frazione di Mirandola dove lavoravamo come affittuari, 18 biolche di terra da cui traevamo di che vivere. Il cibo non ci è mai mancato anche se durante la guerra dovevamo “nasconderlo” dagli invasori “i tugnein” che spesso riuscivano a sottrarcelo mettendo a rischio la nostra stessa vita. Anch’io pur essendo poco più che una bimba dovevo contribuire dando l’erba medica alle mucche, pulendo la stalla o raccogliendo le verdure dell’orto che coltivavamo solo per nostro uso. Al mercato era destinato la gran parte della produzione: grano, granoturco, barbabietole, latte uova e frutta. E oltre a pesche, ciliegie, alle piccole pere di San Pietro, c’era l’uva. I filari delimitavano i campi coltivati e costeggiavano il canale Diversivo.
Una domenica ricevemmo la visita inaspettata dello zio Evaristo che in bicicletta, una normalissima bicicletta nera, voleva raggiungere il lago di Garda. Era partito da Modena, dove abitava, ed era arrivato proprio all’ora di pranzo per rifocillarsi un pò prima dei tanti chilometri che lo attendevano. Mah… non so se al Lago di Garda ci sia mai arrivato; lo zio Evaristo è ritornato altre volte a trovarci ma di quella domenica particolare non se ne è più parlato. Forse perché tutti sapevano che era una scusa: lo zio Evaristo voleva semplicemente mangiare il piatto della domenica, gli gnocchi di patate conditi con il ragù di carne!
Sono passati tanti anni da allora, gli gnocchi di patate li preparo ancora anche se al ragù di carne ho sostituito, per mantenermi in forma, il ragù con pomodoro e basilico.

Elia – Associazione Culturale  “L’Incontro”

Ricetta
Ingredienti: 1 kg  di patate,  ½ kg di farina, un po’ di sale (solo nell’acqua di cottura delle patate), parmigiano grattugiato, basilico.
Cuocere in una casseruola le patate ricoperte di acqua con un pizzico di sale. Una volta cotte, pelare e schiacciare le patate con lo schiaccia patate. Sul tagliere impastare la farina con le patate schiacciate. Si formerà un impasto dalla consistenza morbida.  Formare con l’impasto delle strisce a salsicciotto dello spessore di un dito. Tagliare le strisce formando tanti dadini di circa 2 cm. Prendere una grattugia ed utilizzando il retro con l’indice strisciare i dadini procedendo dal basso verso l’alto. Ecco gli gnocchi.
Cuocere in acqua bollente gli gnocchi e scolarli dopo 1-2 minuti che sono venuti a galla. Condirli con sugo di pomodoro e basilico e con tanto tanto Parmigiano grattugiato.

Mia madre, il sugo “finto” e il sugo “vero”

Sono diventata una cuoca dopo la sua morte.
Sembrava reciso il legame tra noi due e questo ha fatto sì che, stranamente, in qualche misterioso modo, io sia diventata lei. E non solo per l’ovvio motivo che ora la nonna sono io, ma perché le somiglio sempre più. Lo vedo, talvolta trasalendo, quando capito davanti ad uno specchio un po’ distrattamente e mi sembra di vedere lei, lo stesso suo sguardo; me lo dicono parenti e amici. Lo vedo anche dal fatto che mi vengono in mente, improvvisamente e spontaneamente – per una sorta di memoria involontaria – i suoi gesti, il suo modo di fare il pane, di tirare la sfoglia per far le tagliatelle, di fare il “polentone” sul paiolo di rame, china per più di mezzora sopra il fuoco, rossa e sudata.
Come molte ragazzine, ero allora poco attenta alle cose domestiche, alla cucina, alle ricette, alle procedure, ai gesti che oggi invece rivedo nitidamente in sequenza, che ricostruisco e ripeto con naturalezza, ma con impegno, come un rito di memoria e di identificazione.
E mi prende un rimpianto tenero per il suo modo naturale e semplice, talvolta quasi brusco, di essere generosa, di voler bene ai poveri, ai piccoli, a chi ha fame, a chi ha perduto il marito o il figlio in guerra, a chi non sa scrivere; sempre in movimento a portare, quando poteva, un filoncino di pane bianco e un goccio d’olio (“cenano con l’insalata scondita…”) ai vicini, pieni di figli e di miseria; sempre a cucinare patate, fagioli in umido o pasta con sugo “finto” ( il sugo “vero” era di carne) per quelli della Camera del lavoro o del Partito, che arrivavano da Macerata a fare il comizio o la riunione ed erano sempre affamati…

Maria Teresa

Ricetta del sugo “finto”

Nel nostro orto-giardino c’erano alcuni alberi da frutto e molti ortaggi, insieme a piante aromatiche e fiori; una palma altissima, diversi oleandri e hibiscus, un grande fico piantato da mia nonna negli anni ’20 del Novecento (non l’ho conosciuta, morirà nel 1934), e, soprattutto, tra casa e orto, una grande terrazza con due pergolati di uva fragola, che mio nonno in parte aveva innestato con Sangiovese o Montepulciano, non ricordo bene. Ne ricavava, da queste uve miste, una piccola botte di leggero vinello piuttosto aromatico, che serviva nelle sere fredde d’inverno, con l’aggiunta di zucchero, chiodi di garofano e un po’ di cannella, a fare il vin brulé.
È la fragola a restituirmi ancora l’odore e il sapore dolce dell’infanzia, quei chicchi opachi di colore violaceo, che spizzicavo tra ronzii di vespe e altri insetti, senza neppure aspettare che maturassero pienamente. Nel periodo più caldo dell’estate la luce verde, fresca e ombrosa delle viti fittamente intrecciate veniva incontro a chi saliva la scala che portava al piano superiore, dove orto e giardino erano collocati, perché la casa era costruita su terreno in declivio.
Nell’orto si coltivavano fave e piselli dolcissimi, insalate, zucchine, pomodori, aglio e cipolle, ma c’erano anche erbe odorose e grossi cespugli di rosmarino, salvia, timo, menta, basilico, nepitella, borragine che spiccava con i suoi fiori azzurro-viola.

La preparazione del cibo in tempi magri era un grande terreno di azione e fantasia per mia madre e per tutte le madri. È bello rievocare il “sugo finto”, che era un sugo di pomodoro e olio d’oliva, profumato con cipolla o aglio, basilico, maggiorana, peperoncino e sostituiva, secondo mia madre indegnamente, il sugo di carne.
Il segreto del sugo finto era la freschezza dei pomodori dell’orto, l’olio di oliva locale, le verdure, ossia cipolla, sedano, carota, aglio; ed infine gli “odori”, basilico e altre erbe profumate. A questo sugo, che non doveva bollire molto, si adattava benissimo il pecorino ben stagionato dei monti Sibillini (il parmigiano arriverà alla nostra tavola dopo la guerra, negli anni ’50).
Talvolta, soprattutto nel periodo del maiale, il sugo “finto” veniva arricchito con un pezzetto di pancetta tritata, o di guanciale, o di lardo. E cessava così di essere “finto”.

 

Ricetta del sugo “vero”

Ma la domenica non si badava a spese; venivo mandata il sabato in macelleria con cento lire e tornavo a casa con un cartoccio di ossi di manzo, cartilagini e poca carne a pezzi; più raramente, veniva ucciso un pollo e mamma stava ore a pulire le interiora e persino le budella, che, ben lavate e finemente tagliuzzate, finivano nella padella del ragù insieme a testa, ali e zampe. Se si aggiungeva a questi ingredienti un poco di carne bovina macinata e una salsiccia, ecco il ragù marchigiano dei giorni delle grandi ricorrenze, destinato alle tagliatelle tirate col matterello e anche alle lasagne marchigiane, che vengono ancora chiamate “vincisgrassi” o “princisgrassi”.
La principale differenza di questo ragù rispetto a quello bolognese consisteva in alcuni ingredienti come il lardo tagliuzzato, le rigaglie di pollo insieme a macinato bovino e in alcune spezie come chiodi di garofano, che si infilavano nella cipolla. Era dunque un ragù con molte carni, dal pollo al maiale al manzo.
Certo, gli animali, pur con parsimonia, venivano uccisi e mangiati, era una dura necessità. Ma era affettuoso il rapporto di mia madre con le galline, sembrava in qualche modo paritario: come fossero persone, le chiamava per nome, le rispettava, ci parlava, le accudiva con cura e le insultava solo quando mangiavano il prezioso uovo appena deposto; e soffriva nell’ucciderle.
Il maiale aveva il suo “stalletto” nell’angolo dell’orto più lontano dalla casa, tra un grande fico e dei sambuchi. In gennaio veniva ucciso, di mattina presto, ed io mi svegliavo alle sue urla acute e disperate. Provavo pena per lui, ma mi distraevo subito con tutto il tramestio che seguiva, il sangue che veniva bollito, spezzato in cubetti e in gran parte, secondo l’uso, distribuito ai vicini insieme ad alcune frattaglie, per essere poi fritto con olio e cipolla costituendo una gustosa e pesantissima cena.

Fontana Dugoni

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Una biolca di terra in prossimità di Ponte Sant’Ambrogio nel Comune di San Cesario. Un bassocomodo sorretto da quattro contrafforti con la bocca del forno sulla parete nord. Intorno solo prato. Siepi autoctone e una parete di sempreverdi. La Vite. Alti fusti, disposti a mezza luna, tra cui una quercia assai vigorosa. Due pioppi e un prugnolo a ricordo delle coltivazioni più intense del passato. Due porte da calcetto. Un lungo tavolo in legno costeggiato da due panche che poggiano sulle solide ruote di ferro di un vecchio carro agricolo. Una striscia luminosa di piccole luci si accendono al crepuscolo. La legnaia. La casetta di legno con dentro tutto il necessario. Si inaugura il 25 Aprile e si prosegue fino a Settembre. Si sta alla buon aria. La grande griglia canadese circolare raccoglie nel suo ventre parabolico il letto di braci. Si mesce il vino e si cuociono le carni. Sua maestà il maiale ci finisce sempre in mezzo. La qualità è il macellaio di fiducia, il buon risultato è dato dall’esperienza del cuocerlo al momento e per il tempo giusto. Il grande orto, curato da mani esperte, fornisce il resto. C’è ampio parcheggio per la compagnia che è l’ingrediente principale per rendere speciale questa ricetta. Il luogo ha sempre portato il nome della strada: Bagnese. E’ un’eredità di famiglia nata da una rocambolesca divisione, avvenuta 15 anni fa, di un piccolo podere che nostro padre aveva in comproprietà. Noi, che siamo in 4 fratelli, abbiamo pensato solo a condividerlo ed a conservare le ricette di vita contadina lì apprese. Nel tempo sono state fatte diverse migliorie per renderlo più accogliente ed accessibile. Fu così che prima di tutto portammo l’acqua e mettemmo una fontana. Sandro venne a cena con tutta la famiglia, e mentre raccontava una nuova ricetta intorno a fuoco, ribattezzò il luogo così come lo chiamiamo oggi: Fontana Dugoni.

Albano

Ricetta

Ingredienti: Terra, Aria, Acqua, Fuoco, Amicizia

I tortellini appesi a un filo…

Si partiva la mattina molto presto, per finire la sera tardi: un lavoro preciso e accurato, come voleva la nostra “maestra di stringitura” di quasi 90 anni… tutti uguali e messi in fila come una squadra di cadetti all’adunata! La cosa misteriosa era che nessuna di noi due sapesse quante uova erano state impastate; se durante la lavorazione chiedevo:” ma quante uova sono in tutto? la risposta era vaga e sfuggente “mah, non ricordo…” rispondeva, forse 18 o 20, per arrivare al numero reale finale di 30/35 uova di pasta. E cosi si andava avanti raccontando  storie di vita vera, che riempivano il cuore  e la mente di noi che li, intorno a quel tavolo saremmo rimaste per ore e ore…
E non finivamo mai… ogni tanto buttavo l’occhio alla pentola del pesto che non calava, però mi piaceva ascoltare i vissuti di quel tempo a me sconosciuto, ma tanto prezioso per le nonne e per me che in poco tempo imparavo la lezione più importante della vita che avevo davanti.
Quanto Amore raccoglievo!!
Si!, Si producevano tortellini con il gusto e il sapore di una vita povera, ma allo stesso tempo ricca di emozioni, sorprese, sensazioni, azioni spensierate di una allegra gioventù, sensazioni che davano al tutto un profumo di incanto sorprendente! Rimanevo a bocca aperta a ogni racconto,  mi sentivo fortunata e improvvisamente grande, insieme a loro che di crostini e tortellini ne avevano mangiati tanti!! Il brodo con cui venivano cotti i mitici tortellini, veniva fatto bollire per ore e ore… e insieme alla gallina veniva aggiunto un “pezzo di girello” (manzo) per rendere il brodo più ricco. Non ho mai capito perchè questi fratelli Vincenzi avessero tanto potere culinario, ma ancora oggi vedo nell’aria quel filo trasparente che unisce la loro maestria nella preparazione delle carni, a quello della terra e della natura che regala i suoi frutti, del fumo e del profumo che avvolge la nostra cucina. E’ un filo invisibile che congiunge me e le nonne in un sapore infinito di ricordi.

Marzia

Ricetta

Ingredienti: 1 kg di carne cosi suddivisa, 400 gr di polpa di maiale, 200 gr di salciccia di maiale, 200 gr di prosciutto crudo, 200 gr di mortadella, parmiggiano reggiano a piacere, un pizzico di noce moscata 

Si andava ad acquistare la carne e gli affettati nella mitica macelleria storica di Soliera dei fratelli Vincenzi, che macinavano per ben due volte sia la carne che gli affettati, per dare a tutto il pesto un sapore più raffinato. iIl formaggio, ingrediente principe, proveniva dalla roulotte di Cavezzo nel mercato settimanale del sabato, quella del martedi non era ai suoi livelli. Le uova erano delle galline allevate in famiglia e la farina proveniva dal molino di Ganaceto, luogo in cui ogni anno la nostra azienda agricola portava il grano a macinare. Questo intruglio veniva poi fatto “scottare” sul fuoco lentamente e poi lasciato raffreddare per poterlo lavorare. Il formaggio era l’ultimo ingrediente ad essere aggiunto, si procedeva poi ad amalgamare il tutto!

Rispetto per gli altri – Ricetta di mia madre

Aprile ’94, la nostra casa era sempre stata aperta a tutti, ma quel giorno si aprì a qualcosa di importante per tutti noi. Arrivò una telefonata dalla clinica Hesperia, mia madre rispose “certo portateli qua la camera è pronta”. L’equipe del prof. Ferrazzi si era offerta di operare gratuitamente un bimbo bosniaco nato con una malformazione cardiaca grave. Purtroppo la prima visita dette esito  negativo. Almir – questo è il nome del bimbo – era denutrito, pallido cioè non era in grado di subire una operazione al cuore. Doveva stare a Modena per almeno due mesi e rimettersi in forze. Ecco il perché della telefonata, ci avevano chiesto ospitalità. Quando vidi questi due esseri rimasi sbigottita. Almir aveva gli occhi blu i capelli biondo-cenere, diafano. Sena, la madre, sorridente forse un po’ timida. Mia madre aprì le braccia e disse “dobro-dosli” (si era informata da un’ amica) poi entrammo in casa. Iniziò così un periodo molto intenso nell’ attenzione reciproca di non offendere i propri stili di vita. La domenica mangiavamo tortellini con carne di vitello e/ o pollo e Sena che voleva sdebitarsi ci preparava la pita con verdure e agnello. Almir giocava coi miei nipotini e quando arrivava una crisi aveva imparato a mettersi a sedere e aspettare che tutto tornasse come prima. L’operazione si svolse il 3 giugno e durò 4 ore. Li ho rivisti 2 volte ai controlli medici. Ora dovrebbe avere 25 anni E’ tornato a Tusla con Sena, il padre, che morirà poco dopo saltando su una mina, e Amela sua sorella. Non avevano nulla, avevano perso tutto tranne la vita. Sena  sempre sorridente ci lasciò con qualche chilo in più. Mia madre ci lasciò l’assoluto rispetto e l’amore per gli altri.

Eugenia

Ricetta

Ingredienti:  farina, acqua, verdure lessate, carne non di maiale 

Impastate la farina con l’acqua fino a farne un impasto omogeneo, preparate una grande lasagna e metteteci sopra le verdure e la carne, poi arrotolate a forma di biscia e mettetele in una teglia oliata e formate una spirale, bucatela con una forchetta e mettete in forno a 180° fino a quando la pasta non diventa dorata. Non essendo una brava cuoca, nel caso in cui dovesse essere uno schifo, fermate una signora slava per la strada e chiedetele la ricetta corretta, tornate a casa, rifate il tutto contente di avere conosciuto una nuova persona!