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I Caplét tra bontà e scherzo

Una tradizione di molte case romagnole era quella del “cappelletto del lovo.” Mia nonna che era romagnola mentre riempiva i cappelletti in uno metteva un fagiolo o un pezzo di tappo in mezzo al ripieno. Quindi a chi capitava il cosiddetto cappelletto “lovo” aveva due soluzioni: o ingoiare il cappelletto col fagiolo come se niente fosse, oppure dichiarare di avere trovato il fagiolo dentro il cappelletto e fare un’adeguata penitenza decisa dagli altri commensali. Mi ricordo che mi capitò più di una volta di trovare il fagiolo… La prima volta confessai di averlo trovato e feci una penitenza per nulla piacevole; dovetti sparecchiare e lavare i piatti. La seconda volta che mi capitò di trovare il fagiolo ingoiai il cappelletto con il fagiolo facendo finta di niente. Se nessuno dichiarava di averlo trovato, la nonna guardava i commensali negli occhi e chiedeva ad ognuno chi aveva mangiato il cappelletto del ”lovo,” naturalmente tutti negavano e finiva il tutto con una grande risata.

Paola

Ricetta

Ingredienti: per 8 persone: per la pasta: 400 gr di farina, 4 uova; per il ripieno 200 gr di ricotta,100 gr di formaggio tenero (ad esempio la casatella o bazzotto), 100 gr di parmigiano, 50 gr di pecorino stagionato, 1 uovo, una grattata di noce moscata sale q.b.; per servirli brodo di carne e parmigiano.
Impastate la farina con le uova fino ad avere un composto liscio ed omogeneo, lasciate riposare la pasta coperta per qualche minuto. Preparate il ripieno, stemperate la ricotta con il formaggio tenero, unite il parmigiano, le uova, il sale e la noce moscata, amalgamate bene il tutto. Tirate la sfoglia di uno spessore medio, ricavate dei quadrati di circa 5 cm di lato, riempiteli con un po’ di ripieno, richiudetelo a triangolo chiudendo bene i bordi quindi fate girare i triangoli intorno al dito medio e sovrapponete le due estremità. Cuoceteli nel brodo di carne e serviteli in brodo con una spolverizzata di parmigiano.

La marmellata della zia Ida

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Mi chiamo Lucia, sono nata a Roma, e li’ ho vissuto 19 anni, i miei primi 19.
Quando d’estate tornavamo dalle vacanze di montagna ci si fermava sempre a Soliera a casa della mia nonna materna per circa una settimana in settembre.
In quei giorni i miei genitori approfittavano per andare a far visita ai parenti del papa’ nelle zone mantovane e reggiane.
Una mia zia aveva una bella casa colonica a Villanova di Reggiolo, era una delle mie visite preferite in quanto c’erano tanti animali che io non avevo occasione di vedere a Roma.
La zia Ida, sorella del papa’, quando giungeva il momento dei saluti, ci regalava sempre una barattolo grossissimo di quelli con il coperchio di vetro e la guarnizione in gomma rossa, pieno di marmellata di pere.
Un giorno diventata grande e sposata, mio marito mi porto’ a casa tante pere mature, ne approfittai per fare la marmellata.
La prima mattina che la spalmai sul pane più’ che il sapore e il profumo di pere, sentii il profumo di vecchi ricordi e mi sembro’ di tornare bambina. Da allora tutti gli anni faccio la marmellata di pere per sentire ancora vicino a me la tanto amata zia e per ritornare un po’ bambina.

Lucia

Ricetta

Ingredienti: 1 kg pere mature qualità abate 3 etti di zucchero
Pulire e pelare le pere, togliere il torsolo e tagliarle a pezzetti non troppo piccoli, mettere in una pentola possibilmente con il fondo spesso, aggiungere lo zucchero e mescolare fino al completo scioglimento dello zucchero. lasciare riposare pochi minuti e poi mettere sul fuoco basso coperta da una retina.  Non mescolare piu’ per circa 5 ore, poi iniziare a mescolare fino ad ottenere una consistenza abbastanza cremosa densa. Invasare ancora calda, chiudere i vasi, capovolgerli e avvolgerli con dei canovacci, la mattina seguente etichettare e iniziare a consumare dopo circa un mese.

Mia madre, il sugo “finto” e il sugo “vero”

Sono diventata una cuoca dopo la sua morte.
Sembrava reciso il legame tra noi due e questo ha fatto sì che, stranamente, in qualche misterioso modo, io sia diventata lei. E non solo per l’ovvio motivo che ora la nonna sono io, ma perché le somiglio sempre più. Lo vedo, talvolta trasalendo, quando capito davanti ad uno specchio un po’ distrattamente e mi sembra di vedere lei, lo stesso suo sguardo; me lo dicono parenti e amici. Lo vedo anche dal fatto che mi vengono in mente, improvvisamente e spontaneamente – per una sorta di memoria involontaria – i suoi gesti, il suo modo di fare il pane, di tirare la sfoglia per far le tagliatelle, di fare il “polentone” sul paiolo di rame, china per più di mezzora sopra il fuoco, rossa e sudata.
Come molte ragazzine, ero allora poco attenta alle cose domestiche, alla cucina, alle ricette, alle procedure, ai gesti che oggi invece rivedo nitidamente in sequenza, che ricostruisco e ripeto con naturalezza, ma con impegno, come un rito di memoria e di identificazione.
E mi prende un rimpianto tenero per il suo modo naturale e semplice, talvolta quasi brusco, di essere generosa, di voler bene ai poveri, ai piccoli, a chi ha fame, a chi ha perduto il marito o il figlio in guerra, a chi non sa scrivere; sempre in movimento a portare, quando poteva, un filoncino di pane bianco e un goccio d’olio (“cenano con l’insalata scondita…”) ai vicini, pieni di figli e di miseria; sempre a cucinare patate, fagioli in umido o pasta con sugo “finto” ( il sugo “vero” era di carne) per quelli della Camera del lavoro o del Partito, che arrivavano da Macerata a fare il comizio o la riunione ed erano sempre affamati…

Maria Teresa

Ricetta del sugo “finto”

Nel nostro orto-giardino c’erano alcuni alberi da frutto e molti ortaggi, insieme a piante aromatiche e fiori; una palma altissima, diversi oleandri e hibiscus, un grande fico piantato da mia nonna negli anni ’20 del Novecento (non l’ho conosciuta, morirà nel 1934), e, soprattutto, tra casa e orto, una grande terrazza con due pergolati di uva fragola, che mio nonno in parte aveva innestato con Sangiovese o Montepulciano, non ricordo bene. Ne ricavava, da queste uve miste, una piccola botte di leggero vinello piuttosto aromatico, che serviva nelle sere fredde d’inverno, con l’aggiunta di zucchero, chiodi di garofano e un po’ di cannella, a fare il vin brulé.
È la fragola a restituirmi ancora l’odore e il sapore dolce dell’infanzia, quei chicchi opachi di colore violaceo, che spizzicavo tra ronzii di vespe e altri insetti, senza neppure aspettare che maturassero pienamente. Nel periodo più caldo dell’estate la luce verde, fresca e ombrosa delle viti fittamente intrecciate veniva incontro a chi saliva la scala che portava al piano superiore, dove orto e giardino erano collocati, perché la casa era costruita su terreno in declivio.
Nell’orto si coltivavano fave e piselli dolcissimi, insalate, zucchine, pomodori, aglio e cipolle, ma c’erano anche erbe odorose e grossi cespugli di rosmarino, salvia, timo, menta, basilico, nepitella, borragine che spiccava con i suoi fiori azzurro-viola.

La preparazione del cibo in tempi magri era un grande terreno di azione e fantasia per mia madre e per tutte le madri. È bello rievocare il “sugo finto”, che era un sugo di pomodoro e olio d’oliva, profumato con cipolla o aglio, basilico, maggiorana, peperoncino e sostituiva, secondo mia madre indegnamente, il sugo di carne.
Il segreto del sugo finto era la freschezza dei pomodori dell’orto, l’olio di oliva locale, le verdure, ossia cipolla, sedano, carota, aglio; ed infine gli “odori”, basilico e altre erbe profumate. A questo sugo, che non doveva bollire molto, si adattava benissimo il pecorino ben stagionato dei monti Sibillini (il parmigiano arriverà alla nostra tavola dopo la guerra, negli anni ’50).
Talvolta, soprattutto nel periodo del maiale, il sugo “finto” veniva arricchito con un pezzetto di pancetta tritata, o di guanciale, o di lardo. E cessava così di essere “finto”.

 

Ricetta del sugo “vero”

Ma la domenica non si badava a spese; venivo mandata il sabato in macelleria con cento lire e tornavo a casa con un cartoccio di ossi di manzo, cartilagini e poca carne a pezzi; più raramente, veniva ucciso un pollo e mamma stava ore a pulire le interiora e persino le budella, che, ben lavate e finemente tagliuzzate, finivano nella padella del ragù insieme a testa, ali e zampe. Se si aggiungeva a questi ingredienti un poco di carne bovina macinata e una salsiccia, ecco il ragù marchigiano dei giorni delle grandi ricorrenze, destinato alle tagliatelle tirate col matterello e anche alle lasagne marchigiane, che vengono ancora chiamate “vincisgrassi” o “princisgrassi”.
La principale differenza di questo ragù rispetto a quello bolognese consisteva in alcuni ingredienti come il lardo tagliuzzato, le rigaglie di pollo insieme a macinato bovino e in alcune spezie come chiodi di garofano, che si infilavano nella cipolla. Era dunque un ragù con molte carni, dal pollo al maiale al manzo.
Certo, gli animali, pur con parsimonia, venivano uccisi e mangiati, era una dura necessità. Ma era affettuoso il rapporto di mia madre con le galline, sembrava in qualche modo paritario: come fossero persone, le chiamava per nome, le rispettava, ci parlava, le accudiva con cura e le insultava solo quando mangiavano il prezioso uovo appena deposto; e soffriva nell’ucciderle.
Il maiale aveva il suo “stalletto” nell’angolo dell’orto più lontano dalla casa, tra un grande fico e dei sambuchi. In gennaio veniva ucciso, di mattina presto, ed io mi svegliavo alle sue urla acute e disperate. Provavo pena per lui, ma mi distraevo subito con tutto il tramestio che seguiva, il sangue che veniva bollito, spezzato in cubetti e in gran parte, secondo l’uso, distribuito ai vicini insieme ad alcune frattaglie, per essere poi fritto con olio e cipolla costituendo una gustosa e pesantissima cena.

Brodetto di pesce marchigiano fatto da mia madre

Mia madre comprava il pesce fresco alle sette del mattino, da quelle che chiamavamo “portammare”, ossia le pescivendole (portano dal mare). Arrivavano, fino ai primi anni ’50, con le cassette del pesce in testa, a piedi, da Porto Recanati. Le loro voci mi svegliavano, le ho ancora nell’orecchio, acute e un po’ strascicate: “Pesce vivooooo, lattarina (pesci piccolissimi e argentati) el risu de maruuuu…(ossia il riso del mare, oppure il sorriso del mare… chissà…), e poi “concole, panocchie, alici, roscioli (piccole triglie) zanchette, gattine, mugelle e bocca in caoooo (forse gallinelle di mare), seppie, sgombri, sfoglie (sogliole) scorfani”.
Vivo, vivo!! Teresa, Nunziata, Caterina, Maria, Adelina, Lisa, è rivato el pesce vivo e a poco! Il richiamo finale risultava musicale, modulato, inconfondibile: “Aho ahohhhhh!!”
Erano pesci per lo più a basso prezzo, freschissimi. Dopo la rituale discussione sul prezzo, sul peso, ecco una manciata di alici o un pugno di granchi in omaggio. Mia madre ne sceglieva alcuni, spesso merluzzi, per ricavarne un brodo leggero e profumato per me, che ero delicata di stomaco e inappetente; di altri si serviva per preparare una zuppa per gli uomini, piuttosto forte e saporita, il famoso “brodetto” marchigiano, che ha tante versioni: dolce e delicato a Fano, sempre più piccante e forte man mano che si scende verso Abruzzo e Puglia.

Maria Teresa

Ricetta

Con diverse varianti in base alle specie e alla quantità e varietà di pesci a disposizione. La riuscita dipende da questo: il brodetto nasce infatti sulle barche dei pescatori e si cucina con quello che si pesca.

Far soffriggere in un grande tegame possibilmente di terracotta una grossa cipolla affettata finemente in abbondante olio EVO, aggiungere una o due seppie pulite e tagliate a pezzi, far bollire a fuoco vivo, quindi sistemare sopra le seppie gli altri pesci facendo attenzione a non romperli, mettere per ultimi quelli più teneri, poi sale e pepe insieme ad un pizzico di zafferano; mentre il pesce si rosola sfumare con un bicchiere di buon vino bianco secco, aggiungere uguale quantità di acqua calda e portare a cottura. Servire con pane tostato, con sopra pesci e abbondante sugo, che sarà di colore marrone nella versione zafferano o rosso scuro nella versione pomodoro.

Senza ricetta

Milano Marittima 30 Luglio 2015

Intanto faccio presente che sono una nonna di ottantadue anni quasi, essendo nata nel 1933, sono piemontese, e come vedete dai dati sono in vacanza al mare e ho visto l’articolo sul “Carlino” del Concorso aperto fino al mese di settembre ed esprimo il mio pensiero. Sono purtroppo vedova di un ufficiale e vivo una vita menomata dalla separazione da mio marito dopo 53 anni di vita assieme, e vivo con molta fatica, ma la vita c’è e bisogna viverla anche faticando. Dall’alto dei miei anni potrei inviarvi chissà quali e quante ricette, messe in pratica, riuscite, sbagliate, ma ho pensato che posso mandarvi altre ricette che possono far bene all’anima più che al corpo. Certo nel mio Dna piemontese, vercellese, ci sarebbero tante ricette famigliari come la “ paniscia,” “la fonduta”, “la bagna cauda”, ecc. ma io preferisco uscire dal regolamento parlando di altre ricette, ricette di vita.
Una in particolare è quella che bisogna mettere in pentola tutti gli ingredienti giusti per stimolare la curiosità che ad una certa età può essere carente, perché serve a cuocere bene tutte le salse per riattivare, oltre che a nutrire corpo, mente e psiche, giornalmente, uscendo di casa, annotando tutte le cose nuove, buone o cattive che si incontrano e trarne vantaggio. Questo non avviene se si sta chiuse in casa, sedute su una poltrona, sole, cucinando ricordi, che sono sicuramente la vita vissuta di noi nonne, ma diventano nostalgia, malinconia, se analizzati da sole e non nutrono più come un tempo. Quindi serve armarsi di un quadernetto, di una matita, di qualche foto, anziché di una pentola, per cucinare un ricordo di vita da lasciare ai figli, ai nipoti. Forse ora, loro, non hanno tempo di leggerli, ma più avanti negli anni, copieranno la ricetta della nonna, che diventerà utile anche per i loro pasti quotidiani, nel vivere la vita futura che avranno.
Sappiamo da tempo che la vita è paragonabile ad una ruota, che gira e rigira, nella quale si sale la scala con premura, verso traguardi nuovi, con ricette nuove adottate al momento, e che va bene anche un hot-dog, per soddisfare lo stomaco, ma quando gli “anta” fanno capolino e la scala della vita ci porta verso la discesa, ci si appoggia volentieri ad un vissuto, raccontato, che diventa monito, e si desidera rimetterlo in pratica, facendolo ridiventare nuova ricetta di vita. Ci riporta il sapore di un sacrificio, fatto con dignità, portando una divisa o semplicemente una tuta da meccanico, con quel piacere di sedersi ad una tavola pulita che ci nutriva di grandi valori.
Si sa che una pietanza cucinata correttamente non deve far bruciare l’olio, deve avere la giusta dose di sale, deve trasmettere al palato il gusto sublime di un cibo, che arrivando al cervello farà gustare la ricetta dando beneficio al corpo. Io paragono queste ricette e questa attenzione ad altre ricette di nutrimento nelle quali posso trovare un piatto di musica lirica, di jazz, di musica moderna melodica, di una rappresentazione teatrale, di una preghiera davanti ad un altare, o la lettura di una poesia. Non servono le posate d’argento, neanche le tovaglie di famiglia, ricamate a mano e neppure le apparecchiature eleganti, basta l’interno di una chiesa, un piccolo coro, un organo suonato da un vecchio sacrestano dalle mani fatate, a saziare un pomeriggio qualsiasi, per renderlo nutriente. E’ valida come ricetta anche un’ora trascorsa nel silenzio di una biblioteca, alla ricerca di un libro nuovo di zecca o di un vecchio testo da rileggere per ritrovare le emozioni provate un tempo, che riesce farci tornare casa con una cenetta nel cuore, pronta da gustare, con un libro in mano D’altronde alla mia età si è golosi di tante pietanze dolci o salate, però come quantità, ne servono poche, perché subito ci si sente saziata, diversamente dalla musica, dalla prosa, dalla lirica, che per me sono nutrimento e scambio psicologico, così come lo spedire o il ricevere una lettera. La gusto, la rileggo piano, piano ed è companatico ai miei pensieri solitari e mi dona compagnia, notte e giorno.
Perciò non scrivo ricette culinarie da provare ma in un semplice foglio deposito altre ricette, ricette di vita, che non vogliono essere consigli, esprimono solamente il pensiero che la vita può essere nutrita da sostanze valide, giunte a noi dall’esempio di bisnonne, nonne e madri, dentro le quali abbiamo formato il nostro corpo, mettendo poi, in uno scrigno, i valori che ci hanno trasmesso.

Noris, residente a Modena