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Conejo alla cacciatora

Tante sarebbero state le ricette che mi hanno accompagnato dalla mia infanzia, i tortellini della nonna Anna, mancata da poco, il cous cous della nonna Adriana, simbolo delle loro origini e di come con tanta forza si può  rivoluzione e migliorare la propria vita,  ma è di una, recente, che ho deciso di parlarvi. Quella di un un ricordo così forte, emozionante, diretto come quella del primo Ti amo detto dal tuo ragazzo. Non perché quelle delle mia infanzia non siano piene d’amore, perché se credete così vi sbagliate di grosso, ma solo perché con lui ho conosciuto l’amore vero, quell’amore che non proviene dalla famiglia, ma da un estraneo che nel giro di poco tempo diventa il tuo compagno, il tuo alleato, il tuo sostenitore, quell’amore da favola, quell’amore che anche se è terminato ti lascerà sempre un’emozione indescrivibile nella memoria: quella del primo vero Amore. La ricetta in questione è quella del Coniglio alla Cacciatora, o meglio, come lo chiamava lui, con il suo adorato spagnolo, il conejo. Sapete non ho mai amato il coniglio, mi rifiutavo sempre di mangiarlo ma con lui era diverso, l’ho cucinato e mangiato tutte le volte che riuscivamo a vederci, perché come si fa a dire no quando due occhi come i suoi, neri, intensi ti guardano pieni di amore e ti chiedono: me lo cucini oggi il conejo? Ecco come ho preparato il coniglio alla cacciatora per il primo pranzo dopo quel Ti amo. E quella volta, a differenza di tutte le altre, ci ho messo dentro tutte l’emozione che quel Ti amo aveva scaturito in me, perché ricordatevi sempre una cosa: “si cucina sempre pensando a qualcuno, altrimenti stai solo preparando da mangiare” ed è quella la magia che rende speciale un piatto. Non ho più mangiato il coniglio alla cacciatora, solo il sentirlo nominare mi provoca nausea, non lo cucinerò mai più, non sarebbe la stessa cosa senza di lui. Ma rimarrà sempre la ricetta di vita che ricorderò con intensità e amore.

Francesca

Ricetta

Ingredienti: un coniglio in parti, un peperone giallo, pelati, passata di pomodoro, scalogno, cartone, sedano, sale, pepe.

Si prepara il soffritto, carote, un gambo di sedano, al posto della cipolla, il suo adorato scalogno, e si lascia rosolare per qualche minuto. intanto si tagliano le patate a cubetti, non esageratamente piccoli ma neanche grandissimi perché altrimenti si rischia che rimangano dure. Si uniscono al soffritto insieme al coniglio dopo averlo pulito e lavato accuratamente. Il tutto si sfuma con un bicchiere di vino bianco. Si fa cuocere così a fuoco basso per 10 minuti, mescolando di tanto in tanto, e solo successivamente si aggiungono i pelati e un pó di passata e si aggiusta di sale e pepe. Si lascia cuocere con un coperchio per una ventina di minuti mescolando di tanto in tanto. Successivamente si sposta il coperchio in modo che passi dell’aria in modo che il pomodoro si “solidifichi” e diventi un sugo e si lascia cuocere per altri 10-15 minuti. Se le patate non sono ancora cotte si lascia il tutto sul fuoco fino a quando non hanno raggiunto la cottura perfetta.

Era il lavoro dei campi. Era come una festa

parmigiana carciofi_il lavoro nei campi

Avevo circa sette anni e mi trovavo in campagna con i miei genitori che stavano lavorando nei campi intenti a spargere letame per poi arare i terreni. Quella volta verso mezzogiorno arrivò mio zio che rientrava da Pestum, dove era andato per il rifornire di olive le salumerie del paese, passò dai campi e mi caricò sull’apecar diretto a casa.  Arrivati la zia stava preparando un piatto che mai prima avevo mangiato, e che ancora oggi quando lo assaggio mi ricorda sempre quella giornata: la parmigiana di carciofi.

Giovanni

 

Ricetta della parmigiana di carciofi

Ingredienti

Carciofi, farina, uova, sugo di pomodoro già cotto, mozzarella o provola fresca, parmigiano reggiano grattugiato, pepe nero, sale fino e olio per friggere.

 

Preparazione.

Tagliare i gambi dei carciofi togliendo un giro di foglie; tagliate oltre la metà del carciofo così che vada via la parte più verde; tagliate il carciofo in due/tre parti quindi sciacquare bene, scolare e prendere un piatto piano con dentro la farina, poi una ciotola con le uova, parmigiano,pepe e sale, mescolare bene. In una padella scaldare l’olio; passare i carciofi nella farina e poi nell’uovo e quindi friggerli.

In una teglia mettere del sugo e poi uno strato di carciofi, l’altro de che saranno ricoperti di sugo

 

Poesia

La mia ricetta per affrontare la vita è la poesia, me l’ ha insegnato la vita stessa.
Ho imparato presto cos’ è la morte dopo aver perso a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro mia nonna e mio papà. Ho imparato presto quanto sono amare le lacrime di una mamma rimasta vedova con due figlie adolescenti. Ho imparato cos’è la solitudine e il pensiero costante che nell’aldilà si sta meglio che sulla terra. Ma poi è arrivata la poesia, e la mia lotta  personale e continua si è tramutata nei versi d’amore per la vita stessa, per il proprio uomo, la mamma e la famiglia.
Mamma cara
Mamma cara,
a te sono devota
la vita amara
e spesso tanto vuota,
ma grazie a te si riempie di un qualcosa
si riempie di un senso
e diventa strepitosa,
ma grazie a te la stringo forte fra le mani
e credo ancora
in un possibile domani.

E siccome devo abbinare una ricetta alla mia storia, penso ad un piatto che anche questo è un paitto “salvavita” perchè mi rende felice… Gli spaghetti alla carbonara sono un piatto che preparo sempre una volta alla settimana, di solito al sabato per il pranzo, non ricordo chi me l’ ha insegnato ma nel mio menu settimanale non può mancare mai. E una ricetta che ho a cuore, mi dá sempre tantissima allegria e non so nemmeno il perché ma è così ogni volta che preparo gli spaghetti alla carbonara!

Maryna

Ricetta

Ingredienti: spaghetti, cipolla, pancetta, uova, formaggio parmigiano/pecorino

Per prima cosa metto l’ acqua a bollire e nel frattempo in una padella grande con i bordi abbastanza alti metto a rosolare la pancetta affumicata e ci aggiungo un poco di cipolla tagliata fine; in una ciottolina sbatto due uova con il formaggio grattugiato; quando l’acqua bolle metto giù 120 grammi di pasta ( per due persone), appena è pronta la scolo e la metto in padella, verso le uova sbattute, riaccendono per un attimo il fuoco sotto la padella, aggiungo un pizzico di prezzemolo e del basilico, spengo il fuoco e faccio i piatti.

La conta

67, 68, 69, 70… la rotella taglia i ravioli con gesti secchi e precisi. Le mani sformate da artrite e lavoro li prendono con sicurezza e li allineano sui vassoi di cartone imbiancati di semola. Solo sapendo cosa guardare si vede che le dita sono rigide, e che il loro movimento veloce è sostituito dal pollice contro il palmo. 71, 72, 73, 74 … mamma conta i ravioli via via che li affianca sui vassoi. Non è insolito, conta così tutto ciò che prepara per cucinare e che è composto da pezzi: gnocchi, supplì, panzerotti, ravioli, polpette. La conta serve per esclamare con fierezza: “ne feci 108!” E, soprattutto, a fine pasto, lievemente accusatoria ma soddisfatta “108 ne feci e tutti se li sono mangiati”, per poi aggiungere calcoli su quanti fossero a testa, e zio Orlando ne ha mangiati di più, e Stefano anche, si sa che sono la sua passione. La cucina di mia madre era così, un misto di creatività, arte, ricatto, affetto. Sui cibi composti di “pezzi” si facevano gare su chi ne mangiava di più, scommesse, e racconti epici di quella volta che…
Mia madre, contando, dava la misura del suo lavoro, quello che non le dava autonomia o riconoscimento. Quello che mai avrebbe voluto fare, lei modellista e creatrice di meravigliosi abiti, che aveva detto no a Yves Saint Laurent perché con lui i suoi vestiti non avrebbero avuto il suo nome. Contava gnocchi e polpette come contava i centimetri del suo metro da sarta. Contava quanti ne mangiavamo, penso, per riconoscersi un merito altrimenti ignorato.
Quando cucino, più che altro in vacanza perché di solito non ne ho il tempo, a volte mi accorgo che in una piccola parte di me una voce sussurra 1, 2, 3, 4, 5 …
Tra tutti i pezzi la mia passione erano le polpette. Per molti anni le polpette di mia madre sono state le uniche che potessi concepire. Ricordo quando andammo per la prima volta in vacanza a Cattolica e la proprietaria della pensione Villa Pozzi annunciò che, per cena, c’erano le polpette. Ero felice. Quando arrivó il piatto con delle polpette fritte, fatte con la carne del bollito, scoppiai a piangere disperata : fu un vero tradimento per me scoprire che “polpette” non era un nome divino ma una convenzione.
Ecco la ricetta delle uniche e vere polpette.

Judith

Ricetta

Ingredienti: 300 gr. manzo macinato; 150 gr. mollica di pane; latte q.b.; 1 uovo; due belle manciate di parmigiano grattugiato; sale. Per il sugo: cipolla, carota e sedano per il soffritto; olio evo; passata di pomodoro.

Mettere a bagno la mollica nel latte. Intanto far soffriggere gli odori aggiungendo un cucchiaino di sale e uno di zucchero. Quando gli odori sono imbionditi aggiungere la passata e aggiustare di sale. Il sugo va fatto in una teglia o in una padella larga, dovrá contenere le polpette. Strizzare la mollica e metterla in una terrina con il macinato, il parmigiano, l’uovo e poco sale. Mescolare per bene con le mani. Fare con il composto delle palline grandi al massimo come una pallina da ping pong, ma anche un pochino più piccole. Nel frattempo la salsa sarà arrivata a bollore: annegatevi delicatamente le polpettine, naturalmente contandole. Lasciate cuocere adagio per una mezz’ora. Di tanto in tanto muovete le polpette con un mestolo di legno in modo che rigirino nel sugo. Le persone più attente allo spirito di questo racconto potranno poi contare di nuovo le polpette di ogni porzione, per avere argomenti inconfutabili sull’ingordigia dei commensali.

IL PRANZO DELLA VITTORIA. Cotolette con la trifola

nonno in divisa del regio esercito circa 19150001

IL PRANZO DELLA VITTORIA
«Tina, stetra smana l’è al dè d’la Vittoria!». Traduzione: «Tina (mia nonna materna Clementina), la settimana prossima è il giorno della Vittoria!».
Il ricordare, da parte di mio nonno, l’approssimarsi di questo giorno aveva il preciso intento di sollecitare la nonna a prepararsi per un evento importante e soprattutto ad approvvigionarsi degli ingredienti necessari per la preparazione di un piatto che era cucinato solo in quest’occasione, per sottolinearne la solennità.
Infatti, nella famiglia di mio nonno materno, se a Natale erano i cappelletti, a Capodanno lo zampone, a Carnevale i “rosoni”….il giorno della Vittoria erano “le cotolette con la trifola” che marcavano l’importanza della giornata.
Gli adulti della famiglia, tutti invitati a partecipare al “pranzo della Vittoria” consideravano le “cotolette con la trifola” un attentato ai loro stomaci, con previsione di largo uso di bicarbonato per limitarne i danni, ma nessuno si asteneva dal mangiarle, per non fare torto al nonno, dicevano, ma perché, pensavo io, erano buonissime.
La preparazione di questo piatto per me era straordinaria, non solo perché avveniva una sola volta l’anno. Innanzi tutto la doppia cottura: le cotolette, infatti, dopo essere state impanate con l’uovo e fritte, erano ripassate in un intingolo di burro e pomodoro. Un vero e proprio attentato alla salute, ma, all’epoca, il concetto di sana alimentazione era quasi sconosciuto.
L’ingrediente, tuttavia, che rendeva questa pietanza speciale era la trifola, nome per me esotico, che mi faceva pensare a una sostanza “magica” che nulla aveva a che fare con ortaggi e legumi, anche se l’aspetto era di una piccola patata bianca. Nessuna patata, però, sprigionava un profumo così speciale quando la nonna, dopo aver estratto la trifola da un barattolo pieno di riso in cui era stata conservata fino al momento dell’uso, la tagliava, maneggiandola come un oggetto prezioso, in fettine sottilissime che si adagiavano sulle cotolette. Il primo a esser servito era il nonno e mentre gustava soddisfatto la pietanza, io ero grata alla “misteriosa Signora Vittoria” (nessun familiare né conoscente portava questo nome) grazie alla quale, nella mia ignoranza di bambina, si poteva assaporare una tale prelibatezza.
Presto ho scoperto che la trifola non era che tartufo e che il “giorno della Vittoria” non era in onore di una misteriosa signora bensì, nel gergo familiare, il 4 di Novembre, fino al 1976 festività a tutti gli effetti, anniversario della proclamazione nel 1918 della vittoria dell’Italia sull’esercito austro-ungarico e la conseguente fine della I guerra mondiale. Mio nonno che a quella guerra aveva partecipato, probabilmente, festeggiando la ricorrenza con un cibo ricercato, voleva in modo simbolico riscattare i patimenti della guerra e la Vittoria non era una “signora importante”, ma un evento che, per realizzarsi, aveva richiesto enormi sofferenze e sacrifici di vite umane.

Mariacristina

nonno in divisa del regio esercito circa 19150001

Il nonno in divisa del regio esercito, circa 1915

ricetta per 4 persone
4 fettine di carne di vitello (fesa ) sottili di circa 80 gr l’una;
2 uova;
pane grattugiato q.b.;
olio per friggere;
burro 100 gr;
passata di pomodoro 4 cucchiai
tartufo bianco q.b.
scaglie di formaggio parmigiano reggiano (da mettere sulle cotolette prima del tartufo)
sale e pepe q.b.